MI BASTA COSI'


Se io fossi Dio
E avessi il segreto
Farei un essere esatto a te;
lo proverei
(alla maniera dei panettieri
Quando provano il pane, ovvero:
con la bocca),
e se questo sapore fosse
uguale al tuo, ossia
il tuo stesso odore, e il tuo modo
di sorridere,
e di stare in silenzio
e di stringere la mia mano strettamente,
e di baciarci senza farci male
- Di questo sì, sono sicuro: metto
Tanta attenzione quando ti bacio-;
                                                            allora,
se io fossi Dio,
potrei ripeterti e ripeterti
sempre la stessa e sempre differente
senza stancarmi mai del gioco identico
senza disdegnare neppure quello che fosti
per quella che saresti diventata tra un attimo;
ancora non so se mi spiego, ma voglio
chiarire che se io fossi
Dio, farei
Il possibile per essere Ángel González
per amarti così come ti amo
per attendere con calma
affinché ti creda te stessa ogni giorno,
affinché sorprenda tutte le mattine
la luce appena nata con la tua propria
luce, e scorra
la tenda impalpabile che separa
il sogno dalla vita,
resuscitandomi con la tua parola,
Lazzaro allegro,
io,
bagnato ancora
di ombre e pigrizia
sorpreso e assorto
nella contemplazione di tutto quello
che, in unione di me stesso,
recuperi e salvi, muovi, lasci
abbandonato quando – dopo – taci…
( Ascolto il tuo silenzio.
                                          Odo
Costellazioni: esisti.
                                    Credo in te.
                                                         Sei.
                                                              Mi basta.)

Traduzione di Francesca Coltraro - Poesia di Ángel Gonzaléz Muñiz 


ME BASTA ASÌ
- Testo originale di Ángel Gonzaléz Muñiz -

Si yo fuera Dios
y tuviese el secreto,
haría
un ser exacto a ti;
lo probaría
(a la manera de los panaderos
cuando prueban el pan, es decir:
con la boca),
y si ese sabor fuese
igual al tuyo, o sea
tu mismo olor, y tu manera
de sonreír,
y de guardar silencio,
y de estrechar mi mano estrictamente,
y de besarnos sin hacernos daño
-de esto sí estoy seguro: pongo
tanta atención cuando te beso;
entonces,
si yo fuese Dios,
podría repetirte y repetirte,
siempre la misma y siempre diferente,
sin cansarme jamás del juego idéntico,
sin desdeñar tampoco la que fuiste
por la que ibas a ser dentro de nada;
ya no sé si me explico, pero quiero
aclarar que si yo fuese
Dios, haría
lo posible por ser Ángel González
para quererte tal como te quiero,
para aguardar con calma
a que te crees tú misma cada día,
a que sorprendas todas las mañanas
la luz recién nacida con tu propia
luz, y corras
la cortina impalpable que separa
el sueño de la vida,
resucitándome con tu palabra,
Lázaro alegre,
yo,
mojado todavía
de sombras y pereza,
sorprendido y absorto
en la contemplación de todo aquello
que, en unión de mí mismo,
recuperas y salvas, mueves, dejas
abandonado cuando  -luego-  callas...
(Escucho tu silencio.
                                       Oigo
constelaciones: existes.
                                           Creo en ti.
                                                             Eres.
                                                                      Me basta.)


Biografia d'autore:

Ángel Gonzaléz Muñiz nasce a Oviedo nel 1922, in questa preziosa città capoluogo del Principato delle Asturie, dove ogni angolo sembra incantato e il tempo sospeso. L’infanzia è segnata dalla morte prematura del padre , e l’adolescenza dalla Guerra civile, esperienza dell’umiliazione, della sconfitta e dell’impotenza, come affermerà González stesso. L’ossessione della poesia nasce nel 1943, durante una lunga degenza per cura di tubercolosi; la malattia costringerà González a ritirarsi in un paesino in montagna dove, allettato per tre anni,avrà come assidua compagna la poesia. Superata la malattia, iniziò a studiare diritto presso l’Università di Oviedo, per poi spostarsi a Madrid dove frequenterà la Escuela Oficial de Periodismo. Iniziata la carriera di giornalista, González presto si accorgerà di non voler dedicare tutta la sua vita a questa attività difficile e spesso frustrante, dato che molti dei suoi articoli furono censurati o pubblicati con mezze verità, poiché egli non rispettava ciò che si poteva dire e ciò che invece si doveva tacere. Spostatosi a Barcellona e pubblicato il suo secondo libro Sin esperanza, con convencimiento (1961), inizia a fare amicizia con il circolo di poeti di Barcellona e si ascrive anch’egli alla generazione che poi verrà definita Generaciòn del ‘50. Ma la sua vita prende un ennesima piega differente; invitato a dare una conferenza nel 1970 presso l’Università del Nuevo Mèxico, ad Albuquerque, vi rimane diversi anni in qualità di visiting professor, che svolse anche presso l’Università dell’Utah, facendo ritorno non di rado nella sua amata patria. Ánglel Gonzále fu anche eletto membro della Real Academia Española e ricevette numerosi premi tra cui: Premio Antonio Machado nel 1962, il Premio Principe di Asturia nel 1985, il Reina Sofìa di poesia Iberoamericana nel 1996 ed il Primer premio internacional de Poesìa Ciudad de Granada- Federico Garcìa Lorca nel 2004. Il poeta si è spento a Madrid il 12 gennaio del 2008.

Nota del traduttore: Ero ad Oviedo quando, per una serie di eventi casuali mi ritrovai fra le mani l’Antología Poética di Ángel González; i suoi versi mi hanno accompagnato nelle giornate piovose, tipiche del clima ovetense, e nelle passeggiate calde di giornate assolate quando dal parco San Francisco si ode il richiamo dei pavoni dai colori attraenti. Ángel González si inserisce fra le voci più originali della poesia spagnola contemporanea. La sua opera è un misto fra intimismo e poesia sociale con un particolare tocco ironico; le tre tematiche che ritornano sempre nelle sue poesie sono lo scorrere del tempo, la tematica amorosa e quella civica. Il linguaggio usato è puro, trasparente e accessibile dato che tratta assunti pressoché quotidiani. Si avverte sempre il contrasto tra l’effimero e l’eterno, tra lo scetticismo ed il bisogno di credere in qualcosa; e di frequente questo qualcosa si identifica con l’Amore intenso, puro ed eterno, che nulla e nessuno può ostacolare.




ISTINTO D'ETERNITA'


Che si fotta la bella scrittura.
Quando la vita non è illusione, ma tatto, atavica sensazione, primordiale dolore.
Asciugo il piede per reimmergerlo nella pozza. Umida, calda, protezione.
Veniamo tutti dall’acqua.
Quant’acqua c’è nella  vita.
Nostalgia.
Nostalgia di madre.
Ovunque, chiunque si trascinerà dietro una mancanza fantasma. Mamma.
Com’era caldo e unico l’universo di quella capanna. Utero.
Ce lo ricordiamo tutti, prima o poi.
Un istante.
Un piccolo tempo.
Tutto là. Vista, morte, coito, calore, dolore, dolore.
Primo errore dell’umanità è la sua nascita, la casa di bambole in cui s’è incatenato. Mendace, uomo.
Amore.
Esiste?
Istinto di ritorno all’inizio. Istinto d’eternità. Illusione verace.
Tutto là.
Amore, ti amo. Muori e godi con me.
Non è una lingua, una metrica fra me, te, lei.
Quello, il respiro che insieme lega.
Se ne dimenticano tutti, prima o poi.
La prima incoscienza che rende l’uomo peggiore di un atomo.
Ti amo.

UNO STATO DI ASSENZA

Una strana inquietudine, uno stato di assenza fisica, mentale, spirituale. Nessuna droga in corpo. Immersa in un gioco di cui non conosco le regole, non ne sono padrona, mi faccio trascinare nel vortice dell’inadeguatezza, osservando un flusso che non ha sostanza, che non ha forma né concretezza; ha odore.
Un senso di vomito, piacevole, formicola dentro le mie membra, aumentando i battiti cardiaci e il fremito delle mani, che tremano, ora, mentre scrivo.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di instabilità.
Qualcosa mi sta possedendo, non riesco a controllarlo, e i miei sensi scelgono di non farlo, mi lascio travolgere da raggi solari che sussurrano censura.
Uno stato di assenza.
Una dimensione di precarietà.
Lascio la finestra aperta per prendere aria, per cambiare la puzza di questa camera, assorta nel fumo di sigarette che non mi uccideranno. E intanto cado; cado sul terreno della mia gioventù risucchiando la linfa vitale di un individualismo radicato, che si eleva a inno di autenticità di fronte all’integra precarietà della mia stessa esistenza.
Fuori un’umanità che scorre, inseguendo la morte che cammina affianco ad ognuno, quotidianamente; pensarlo è difficile, realizzarlo è immediato. Corriamo e sprofondiamo, lentamente, dentro il vortice di una guerra non ufficializzata.
Ha senso dire tutto questo?
Pecore di gregge, assetate, noi siamo i creatori di una manipolazione mentale che ipnotizza le masse.
Uno stato di assenza.
Una dimensione terrificante.
Ho perso il controllo del mio persistere, dentro tutto questo.
Il bipolarismo della coscienza, da giorni, possiede il lato surreale del mio essere. Leggere questo suggerirebbe la presenza di una paranoia, di qualcosa che ferisce, fa male, provoca laceranti strappi di personalità. Invece io mi sento viva. Dirlo è pericoloso, diventa censura.
Per giorni sospesa, inevitabilmente, fuori dagli schemi sociali, appesa ad un gancio musicale, parole di inchiostro che non trovano il ritmo; ho voluto vivere.
Ieri notte sono piombata, di nuovo, dentro il vortice di immagini, quelle date dai pregiudizi, quelle che, verbalizzate, spaventano. Un bipolarismo con il paradosso di una condizione precaria, fulminea, passeggera, si radica più forte, rompendo il romanticismo di questo sentire.
Uno stato di assenza.
Una dimensione affascinante.


Francesca Schillaci

UNO STILE BRUTALE, QUELLO DI RUBEN FONSECA

Se non avete mai sentito parlare di Rubem Fonseca, questa è una buona occasione per farsi un’idea su questo autore contemporaneo brasiliano e approfittare della lettura di uno dei suoi racconti che potrebbe risultare puramente sconvolgente.


Rubem Fonseca nasce a Juiz de Fora (nello stato di Minas Gerais, Brasile), l’11 maggio del 1925; la sua biografia è irregolare poiché esercita varie attività professionali prima di dedicarsi nella vita completamente alla letteratura. Gli studi in legge, le nozioni di medicina legale, ma soprattutto la professione di commissario di polizia esercitata nella favela Ciudade de Deus, hanno inciso profondamente nella sua vita e nella sua formazione letteraria  poiché gli anni in cui ha lavorato nelle favelas gli hanno permesso di essere lo scrittore brasiliano che più ha avuto contatto con quella realtà.
Le favelas, ovvero le baraccopoli brasiliane costruite in genere nelle periferie delle gradi città (prevalentemente con materiali di scarto), sono spesso considerate una disgrazia ed una vergogna dai brasiliani ma possono essere viste come una conseguenza della distribuzione ineguale della ricchezza del paese. Il degrado sociale e la povertà favoriscono il sorgere di attività criminali, per questo sono da sempre luogo di attività malavitose legate alla droga e alla guerra tra gang (vi consiglio la visione del film  Cidade de Deus diretta da Fernando Meirelles, esemplare unico di stile Neorealista che documenta la violenza delle favelas ).
L’attività narrativa di Fonseca, nasce appunto dall’urgenza di manifestare attraverso i suoi racconti il malessere della società brasiliana che si estende a tutta l’umanità immersa nella metropoli dove tantissimi individui vivono in maniera eterodiretta e finiscono con il sentirsi frustrati. E la frustrazione del “não ter”, di non avere, della povertà estesa a tutti i campi (intellettuale, economica, sessuale…) genera una violenza insaziabile che Rubem Fonseca rielabora nelle sue cronicas facendola diventare leitmotiv letterario.
Il libro più discusso di Rubem Fonseca, Feliz Ano Novo, è una raccolta di quindici racconti, edito nel 1975 viene censurato un anno dopo la sua pubblicazione con l’accusa di attentato alla morale e al buon costume; siamo negli anni della dittatura, di censura politica e culturale in un contesto sociale agitato dove non c’è spazio per una Literatura comprometida, non c’è spazio per una voce scomoda come quella di Fonseca, che si cimenta a scrivere della città e dei suoi problemi. È un nuovo tempo per la storia del Brasile e la produzione di Fonseca arriva al limite del chocante, in cui il contesto sociale si traduce in violenza come forma di trasgressione davanti alle nuove sfide della società. L’autore si definisce un navegator, colui che metaforicamente naviga nel mare della quotidianità carioca fatta di tormentos. Nasce da questa precisa volontà la verosimiglianza che troviamo nei suoi racconti, dove Fonseca traspone in letteratura il quotidiano della metropoli in cui vive, Rio de Janeiro, metafora del Brasile contemporaneo. La sua scrittura è violenta, brutale, asciutta e molto spesso volgare nelle descrizioni , che risultano oscene e ripugnanti; l’uso di molti registri linguistici contribuisce, nella sua scelta stilistica a dare un effetto  catalizzatore: per questo non si parla solo di un linguaggio brutale e chirurgico, ma anche di un vero e proprio linguaggio cinematografico che è capace di raffigurare l’orrore e di ‘far vedere’ la violenza dilagante.
Per farvi un’idea di quello che ho introdotto vi lascio con la lettura con una crônicas di Rubem Fonseca:


Ciudade de Deus
Il suo nome è João Romeiro, ma nella Cidade de Deus tutti lo conoscono come Zinho, una favela di Jacarepaguà, dove chi fa da padrone là è la droga. Lei è Soraia Gonçalves, una donna dolce e tranquilla. Soraia aveva scoperto che Zinho era trafficante di droga due mesi dopo che avevano cominciato a vivere insieme in un condominio di classe medio-alta a Barra di Tijuca.
- Ma ti dispiace? - le aveva chiesto Zinho, e lei aveva risposto che nella sua vita c'era stato un uomo che sembrava un uomo per bene ma che in realtà era un mascalzone.
Nel condominio, si crede che Zinho sia rappresentante di una ditta di importazione. Quando arriva una grossa partita di droga nella favela, Zinho scompare per qualche giorno e per giustificare la sua assenza, Soraia dice alle vicine che incontra nel cortile o in piscina che il marito è in viaggio per affari. La polizia lo cerca da sempre, ma conosce solo il suo soprannome e sa che è bianco. Non l'hanno mai beccato.
Stasera Zinho è arrivato a casa dopo aver spacciato per tre giorni la cocaina speditagli dal suo fornitore di Porto Suarez e la marijuana che viene da Pernambuco.
I due si sono coricati. Zinho era rapido e rude e dopo aver fottuto la moglie, si girava dall'altra parte e si addormentava.
Soraia non diceva mai nulla, stava sempre zitta, non prendeva mai l'iniziativa: ma a Zinho piaceva così; a lui piaceva che la moglie gli obbedisse a letto così come gli altri gli obbedivano nella Cidade de Deus.

- Prima che ti addormenti, ti posso chiedere una cosa?
- Dimmela subito. Sono stanco e voglio dormire, amore.
- Saresti capace di uccidere una persona per me?
- Tesoro, io uccido qualcuno perché lui mi ha rubato cinque grammi, credi che non ucciderei qualcuno perché tu me l'hai chiesto?! Dimmi chi è. È qualcuno del condominio?
- No.
- Di dove è?
- Vive a Taquara.
- E che ti ha fatto?
- Nulla. È un bambino di sette anni. Tu hai già ammazzato un bambino di sette anni?
- Ho già fatto sparare a due merdine che se la volevano squagliare con delle bustine, per dargli un esempio, ma penso che avessero dieci anni. Perché vuoi uccidere un moccioso di sette anni?
- Per far soffrire sua madre. Lei mi ha umiliato. Mi ha portato via il ragazzo, mi ha preso in giro e ha detto a tutti che io ero una vacca. Poi se l'è sposato. Sai, lei è bionda, ha gli occhi azzurri e si crede d'essere il top.
- Vuoi vendicarti perché ti ha portato via il ragazzo? Ma non è che ti piace ancora quel pezzo di merda?
- No, a me piaci solo tu. Tu sei tutto per me. Quella merda di Rodrigo non vale nulla, lo disprezzo e basta. Voglio fare in modo che quella donna soffra perché mi ha umiliato, mi ha chiamato "vacca" di fronte a tutti.
- Potrei ucciderlo.
- Ma nemmeno a lei, lui piace tanto e io voglio che quella donna soffra molto. È solo la morte del figlio che potrebbe farla disperare.
- Va bene. Sai dove è che sta il bambino?
- Sì, lo so.
- Farò andare a prendere il moccioso e lo farò portare alla Cidade de Deus.
- Ma non farlo soffrire troppo.
- Ma non è meglio se quella puttana viene a sapere che il figlio ha sofferto molto? Dammi l'indirizzo. Domani faccio fare il lavoretto. Taquara è vicino alla mia zona.

La mattina seguente, Zinho uscì con la macchina molto presto e andò alla Cidade de Deus. Rimase fuori per due giorni. Quando tornò, portò Soraia in camera da letto e lei, docile, obbedì a tutti i suoi ordini. Prima che lui si addormentasse, lei gli chiese:

- Hai fatto quello che ti ho chiesto?
- Faccio sempre quel che prometto, tesoro. Ho mandato i miei ragazzi a prendere il bimbetto a scuola e l'ho fatto portare alla Cidade de Deus. All'alba gli hanno spezzato le braccia e le gambe, a quel moccioso, lo hanno strangolato e lo hanno tagliato a pezzi e dopo lo hanno lasciato davanti alla porta di casa della madre. Scordati quella cazzo di storia, non né voglio più sentir parlare - disse Zinho.
- Me la sono già scordata.

Zinho le diede le spalle e si addormentò. Aveva un sonno pesante. Soraia rimase sveglia ad ascoltare Zinho che russava. Poi si alzò e prese il ritratto di Rodrigo che teneva nascosto in un posto dove Zinho non l'avrebbe mai trovato. Ogni volta che Soraia guardava il ritratto dell'ex-ragazzo, i suoi occhi si riempivano di lacrime. Era sempre stato così in tutti quegli anni. Ma quel giorno le lacrime furono molte di più.

- Amore della mia vita… - disse, premendo il ritratto di Rodrigo sul suo cuore in tumulto.


Francesca Coltraro